Oggi è morto Muhammad Ali, aveva 74 anni ed è stato uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, senza dubbio un'icona sportiva tra le più celebri di sempre.Era nato a Louisville, in Kentucky, nel gennaio del 1942, da una famiglia della borghesia nera, con un pizzico di sangue bianco, irlandese, nelle vene.
La sua storia pugilistica è da subito quella di un campione del ring: a 18 anni, alle Olimpiadi di Roma, Alì, allora ancora noto come Cassius Marcellus Clay, vince l'oro dei massimi leggeri. Attorno a questa medaglia nasce poi una leggenda, probabilmente apocrifa, ma che contribuisce a creare il personaggio Alì, anche e soprattutto fuori dal ring. Di ritorno nella sua Lousville, il giovane campione olimpionico è vittima di un episodio di razzismo in un bar e quella medaglia, evidentemente di così poco valore nella vita quotidiana di un nero americano, viene gettata in un fiume. Vera o non vera questa storia, resta che Alì passa al professionismo e inizia a infilare una serie di vittorie (con qualche sconfitta) che lo portano nel 1964 a sfidare Sonny Liston, terribile picchiatore, campione dei pesi massimi, immagine vivente di un certo pugilato legato al sottobosco delle scommesse, degli incontri truccati, del controllo mafioso sul mondo pugilistico. Cioè un mondo che la figura di Alì in larga misura renderà obsoleto.
Dal punto di vista sociale Sonny è invece il classico nero cattivo e pericoloso: proveniente dalla miseria, si è fatto strada a pugni e ama sfoggiare la ricchezza e il prestigio conquistati. Nel frattempo Cassius si è avvicinato alla Nation Of Islam, il movimento nero e musulmano guidato da Elijah Muhammad, all'interno del quale, sempre nel '64, conosce, stringendo una profonda amicizia, Malcom X. L'anno seguente Malcom si allantonerà dalla NOI, non seguito da Alì, e verrà ucciso.
Resta il fatto che a Miami, nel febbraio del 1964 Clay sconfigge Liston in un incontro che solleva polemiche e dubbi – Liston si ritira all'undicesima ripresa, per un misterioso strappo muscolare – diventa campione del mondo dei pesi massimi e annuncia la sua volontà di abbandonare il suo nome da schiavo, per assumere quello di Muhammad Alì, un nome da uomo libero.
Aguzzando lo sguardo, nei video di quella serata si può vedere Malcom X a bordo ring (qui il match completo). Qui inizia il mito, pugilistico e politico, di Alì. Pugilisticamente Alì si impone per uno stile assolutamente inedito nei pesi massimi, fatto di velocità estrema, riflessi felini, poca potenza, ma grande capacità di colpire, di muoversi mandando a vuoto l'avversario, di portare fulminee combinazioni di colpi irresistibili. Al talento sul ring unisce poi la spacconeria fuori dal quadrato: Alì sbeffeggia spesso i suoi avversari, annuncia la ripresa in cui stenderà il malcapitato di turno, e quasi sempre è proprio ciò che avviene.
Nel '65 è ancora il turno di Liston: in pochi minuti l'ex campione va giù, fulminato da un destro che, per molti, è uno dei più grandi pugni fantasma della storia della boxe... in ogni caso Alì si conferma campione, e offre uno degli scatti fotografici più celebri della sua carriera: Liston faccia a terra sovrastato da Alì che lo “invita” ad alzarsi.
L'anno successivo Alì viene sfidato da “Big Cat” Williams: l'incontro, dominato da Alì, è considerato come uno dei massimi esempi della sua boxe, ed è anche il primo nella cui organizzazione ha avuto un ruolo di primo piano la Nation Of Islam. Alì nel frattempo è sempre più impegnato sul tema dei diritti civili: si spende per il pugile Rubin Carter “Hurricane” che viene accusato ingiustamente di omicidio e sbattuto in carcere e nell'aprile del 1967, ma soprattutto rifiuta di rispondere alla chiamata alle armi che l'avrebbe spedito a combattere in Vietnam. Processato nel giugno Alì viene condannato per renitenza alla leva, viene quindi privato del titolo mondiale e espulso dalla federazione pugilistica.
Un colpo che potrebbe spezzare una carriera, ma che invece porta Alì nella leggenda. Celebri le sue dichiarazioni al riguardo: "Why should they ask me to put on a uniform and go 10,000 miles from home and drop bombs and bullets on brown people in Vietnam while so-called Negro people in Louisville are treated like dogs and denied simple human rights?", ma soprattutto "Man, I ain't got no quarrel with them Viet Cong. No Vietcong ever called me nigger".
Da questo momento Alì diventa un'icona della controcultura di fine anni sessanta, della lotta contro la guerra in Vietnam, della lotta per i diritti civili: da Marthin Luther King jr., a Malcom X, fino alle Black Panthers. Alì è dunque figlio di quegli anni, di quel crepuscolo dei gloriosi trenta durante il quale le fondamenta del mondo capitalistico hanno vacillato, durante il quale sembrava possibile, anche nel mondo del pugilato, rovesciare la realtà dello sfruttamento, del razzismo, della sopraffazione. Alì è figlio di quegli anni, ma è anche qualcuno che quell'immaginario lo ha rafforzato, ha aiutato a diffonderlo e a renderlo credibile. Ci mise di mezzo la sua carriera, la sua libertà. Fosse anche solo per questo la figura di Alì suscita un rispetto che pochi altri sportivi possono eguagliare e che fa sì che il paragone con uno qualsiasi dei campioni odierni risulterebbe impietoso per quest'ultimo. Ma anche la sua boxe continua a lasciare ammirati, in alcuni casi quasi increduli. È il caso dei grandi match degli anni settanta, quando Alì, dopo la squalifica, torna a combattere (siamo nel 1970) fino a reclamare il titolo del mondo. Anche qui, incontri che fanno parte della leggenda della boxe e che chiunque, più o meno appossionato di pugilato, non può che ammirare per tecnica, tenacia e violenza.
Nel '71 al Madison Square Garden di New York Alì sfida “Smoking” Joe Frazier, il cui soprannome deriva dal fatto che quando picchia il sacco è talmente potente e veloce da farlo fumare... Alì viene sconfitto, tramortito da un terribile gancio alla mascella (qui l'incontro completo). Ma continua ad allenarsi, a combattere e vincere incontri, fino a quando il 30 ottobre del 1974, a sette anni dalla squalifica, Alì torna campione del mondo, battendo George Foreman in quello che è forse il più celebre incontro pugilistico di tutti i tempi. Dal punto di vista tecnico l'approccio di Alì, contro uno dei pugili più potenti di sempre, appare folle: coprirsi e incassare colpi al corpo, rispondere quando Foreman lascia un po' di spazio, far spompare l'avversario e poi finirlo. In effetti tutto avviene secondo i piani: Foreman picchia Alì per otto riprese, viene poi centrato da un uno-due al volto e va al tappeto per non rialzarsi più. Non è più l'Alì di dieci anni prima, non vola più come una farfalla per poi pungere come un'ape, ma è di nuovo il campione del mondo dei pesi massimi.
Ma c'è di più: l'incontro si svolge a Kinhasa, in Zaire, ed è il primo incontro di questo livello organizzato da Don King, figura piuttosto losca, che diventerà celebre con Mike Tyson. L'incontro celebra Alì come figura carismatica tra i neri d'America, ma non solo. Foreman, il campione in carica, arriva a Kinshasa circondato dal “disprezzo” della gente: è il nero integrato, lo zio Tom; Alì al contrario vi arriva come un campione, celebrato e amato, icona della lotta di liberazione, icona dell'anticolonialismo... difficile per Foreman sopportare una simile pressione, difficile uscire in piedi da un'arena gremita e scossa dall'urlo “Alì bama ye”... “Alì uccidilo”.
L'anno seguente sarà quello del sipario sulla carriera del grande pugile, del più grande di sempre, come verrà soprannominato: a Manila si svolge un ultimo terribile match contro Frazier. Alì questa volta vince, ma entrambi i pugili ne escono distrutti. Alì continuerà a combattere ancora, dopo essersi convertito al sunnismo, incrociando i guantoni con il suo amico e ex sparring partner Larry Holmes, e oltre. Negli ultimi incontri, tra la fine degli anni stettanta e l'inizio degli ottanta, già si intravedono i primi segni della malattia che lo porterà alla morte, il morbo di Parkinson. Ci si può giustamente chiedere che cosa abbia spinto il campione a questi ultimi, rovinosi, incontri: l'amore per il ring, il bisogno di denaro, la voglia di celebrità o chissà cos'altro, resta il fatto che anche Alì, nel finale della carriera, diventa un simbolo di un pugilato spietato, che sfrutta fino all'osso chi può permettere un ritorno di immagine e dunque commerciale.
L'abbiamo già scritto: Alì, come figura complessiva, sportiva, politica e sociale, non poteva probabilmente che nascere in quel contesto storico, a cavallo tra i sessanta e i settanta. Se la sua figura è stata quella di un gigante dentro e fuori dal ring, è stata anche un punto di passaggio cruciale tra la boxe “classica” e quella contemporanea, fatta di eventi televisivi, borse sempre più stratosferiche, divismo e messa a profitto integrale delle figure degli sportivi. Anche in questo caso Alì è stato l'uomo giusto al momento giusto: da Malcom X a Don King, le faccie che sfilano nel giro di un decennio al bordo del ring sul quale Alì danza e colpisce ci potrebbero dire molto dei cambiamenti che stanno intervenendo nel pugilato, ma più in generale nella società.
In ogni caso, resta incontrovertibilmente vero che Alì è stato un gigante, sportivamente e umanamente: con negli occhi il suo esempio, sul ring e fuori dal ring, salutiamo il campione, forse il più grande di sempre.
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